Negli ultimi anni sempre più brand si sono scoperti attivisti. Hanno preso posizione, scegliendo di non restare neutrali. Sostenibilità, giustizia sociale, diritti civili, inclusività: il marketing si è fatto sempre più valoriale. Il brand activism è diventato uno dei temi più discussi nella comunicazione d’impresa. Ma cos’è davvero? E perché alcune campagne diventano case history, mentre altre si trasformano in clamorosi boomerang?
Cos'è e come farlo bene
Partiamo da una premessa: il brand activism non è l’ennesima etichetta da aggiungere alla lista.
È una scelta strategica e identitaria, spesso rischiosa, che richiede coerenza, visione e coraggio.
Non basta appoggiare una causa, magari con un post ben scritto, una sponsorizzazione o una campagna colorata. Serve prendere posizione, in modo autentico e continuativo. Altrimenti, il rischio è dietro l’angolo.
A differenza della tradizionale responsabilità sociale d’impresa (CSR), che si muove spesso in territori rassicuranti (beneficenza, filantropia, raccolte fondi), il brand activism affonda le radici in temi spesso controversi. L’obiettivo diventa cambiare la percezione pubblica, influenzare il dibattito pubblico, partecipare attivamente al cambiamento della società. Non è un caso se molte aziende scelgono di esporsi su questioni sensibili: ambiente, parità di genere, razzismo, diritti umani.
Esporsi però comporta inevitabilmente dei rischi. Qualsiasi schieramento può generare backlash: commenti negativi, boicottaggi, accuse di ipocrisia, campagne denigratorie.
Eppure, proprio in questo sta il potenziale del brand activism. Un’azienda che prende posizione genera attenzione, stimola la discussione, assume rilevanza. Se è coerente, guadagna fiducia. Se invece il messaggio non regge il confronto con la realtà, la caduta può essere dolorosa.

Patagonia: la campagna “Don’t buy this jacket”
Tra i casi più iconici di brand activism c’è quello di Patagonia, brand di abbigliamento outdoor da sempre sensibile alle tematiche di difesa dell’ambiente. Nel 2011, nel pieno del black friday, Patagonia pubblicò sul New York Times una pagina pubblicitaria dal titolo provocatorio: “Don’t buy this jacket”, accompagnata dall’immagine di uno dei suoi capi più venduti. L’obiettivo? Invitare i consumatori a riflettere sullo shopping compulsivo, sull’impatto ambientale della moda e sulla necessità di un approccio più responsabile. Un atto controintuitivo e coraggioso: scoraggiare l’acquisto per promuovere la sostenibilità.
Quella campagna, tutt’altro che fine a sé stessa, faceva parte di una strategia coerente e profonda. Patagonia non si è limitata allo slogan, ma ha implementato iniziative concrete come il programma Worn Wear, per dare nuova vita ai capi usati, o il 1% for the Planet, con cui devolve una parte dei ricavi alla tutela dell’ambiente. Negli anni, l’azienda ha assunto posizioni nette anche su temi politici e nel 2022, il fondatore Yvon Chouinard annunciò di “donare” l’intera azienda alla causa climatica.
Il caso Patagonia dimostra come l’attivismo di marca possa essere credibile solo se radicato nella cultura aziendale. Il messaggio della campagna “Don’t buy this jacket” non è stato percepito come ipocrita perché coerente con il comportamento dell’azienda nel tempo. È in questo che il brand activism diventa leva di fiducia e differenziazione: quando è l’espressione concreta di una visione, e non una semplice trovata di marketing.
Woke washing e social washing: il lato oscuro dell’attivismo
Negli ultimi tempi sono emerse prepotenti alcune distorsioni del fenomeno, come il woke washing e il social washing. Nel primo caso, un brand si appropria del linguaggio dell’attivismo progressista senza sostenerlo davvero nei propri comportamenti. Nel secondo, si sfruttano cause sociali come leva di marketing, con l’unico obiettivo di migliorare l’immagine del marchio.
Il risultato? Campagne disconnesse dalle realtà interne delle aziende, avvertite perlopiù come opportunistiche. È il caso di alcune multinazionali che si dichiarano green ma continuano a inquinare, o di aziende che celebrano la diversità nelle pubblicità ma trascurano politiche inclusive al loro interno. Viene spontaneo chiedersi: quando l’attivismo di un marchio è davvero credibile? I segnali di autenticità si possono riconoscere e sono l’ascolto attivo, la coerenza interna, la continuità, libera da logiche opportunistiche, e la trasparenza, che vuol dire accettare il confronto e farsi carico anche delle critiche.
In un’epoca in cui i consumatori sono più consapevoli e informati, le aziende non possono più permettersi comunicazioni vuote o di facciata. Le persone cercano marche che richiamino i loro valori, che parlino con sincerità, che abbiano il coraggio di dire “da che parte stanno” e di restarci. Quando questo accade si costruisce qualcosa che va oltre il posizionamento: si crea fiducia.
Oggi però l’inclinazione alla mobilitazione sembra affievolita. Tre le cause principali l’inflazione, che ha ridotto lo “shopping valoriale”, che sembra accessibile solo ad alcuni e le shitstorm, che hanno colpito i brand più esposti. Molte aziende preferiscono il silenzio all’esposizione rischiosa.
Forse è un segno dei tempi: più che motori del cambiamento, i brand si rivelano spesso accompagnatori, attenti a non disturbare troppo il proprio pubblico. Ma senza coraggio e coerenza, il rischio è che il brand activism diventi solo un’operazione di facciata.