Nel marzo del 2015 ben 24 città nel mondo assistono a uno spettacolo inusuale. Persone di età, sesso, provenienza diversa che prendono il tram, salgono in bici o attraversano la strada con un outfit certamente particolare: sono in pigiama. Migliaia e migliaia di donne e di uomini sono impazziti tutti insieme all’improvviso? No: stanno solo partecipando a un evento di guerrilla marketing. Qualche avvisaglia c’era già stata. All’alba, un grande cartellone pubblicitario si illumina e si apre, meccanicamente, come una finestra che dà su un enorme Egg McMuffin in controluce. L’installazione è ingegnosa, ma non è questo a fare notizia. L’idea geniale sta nella proposta che accompagna l’immagine: McDonald’s offrirà la colazione a chi si presenterà nei ristoranti in pigiama.
Gioco, coinvolgimento, reputazione, viralità. La campagna di McDonald’s ha tutte le caratteristiche giuste (e ben mixate) per avere successo. Così, le città del mondo rispondono presente. Le persone escono di casa con vestaglie e ciabatte, attraversano le strade in pigiama, si siedono a tavola con sconosciuti vestiti allo stesso modo. Si ride, si fotografa, si condivide. Instagram, Facebook e Twitter (già, all’epoca si cinguettava ancora…) si riempiono di immagini surreali, mentre la routine metropolitana si colora di un gesto fuori dagli schemi. Non è una gag da spot televisivo, ma un’esperienza reale, vissuta e documentata. McDonald’s, senza dire troppo, ha saputo suggerire un modo diverso di iniziare la giornata: leggero, collettivo, memorabile.
Tutto nasce da un’esigenza chiara. Anzi due. La catena di ristoranti più grande (e famosa) al mondo deve darsi un’immagine diversa, meno fast, più attenta alle persone. E – nel frattempo – lanciare la caffetteria. Si comincia con il gioco (la gamification): avrete il coraggio di uscire in pigiama? Quale sarà l’outfit più originale?

Una sfida tra mclovers che attira anche clienti non abituali, meno vicini al mondo del cibo rapido ma attratto dalla competizione. Un gioco che coinvolge, crea comunità: ci sono i social, ci sono le spille (io c’ero) e le tessere fedeltà, ci sarà il racconto curatissimo di McDonald’s sui propri canali. L’immagine di persone che lentamente, pigramente, consumano insieme il pasto più importante della giornata cambia la percezione del brand: quello che sta succedendo non ha niente a che fare con il fast (junk) food. La reputazione svolta, e non per merito dell’azienda: sono i clienti a diventare ambasciatori e testimonial. E sono tanti, e condividono: la viralità è un’arma in più del guerrilla marketing. Condivide chi partecipa, condivide chi vede passare per strada qualcuno in pigiama. L’hastag scelto (#ImLovinIt) diventerà di tendenza subito, in tutto il mondo, i punti vendita saranno attrezzati (con enormi letti per esempio) per essere instagrammabili.
Stupore, sorpresa e partecipazione: è in questo spazio che si inserisce il guerrilla marketing. Non si tratta semplicemente di fare pubblicità creativa o di risparmiare sui mezzi. Il guerrilla marketing è una forma di comunicazione che abita il reale, lo disturba, lo sorprende, lo coinvolge, magari lo travolge. Non si accontenta di essere vista: vuole essere vissuta. Funziona perché rompe le regole senza essere aggressiva, perché si rivolge alle persone con una proposta, non con un messaggio. Chiede qualcosa, in cambio offre un momento – breve o duraturo – in cui il pubblico si sente protagonista. Non è uno spettacolo, è un invito. E quando funziona davvero, non è tanto l’azienda a comunicare, ma le persone che parlano tra loro, che raccontano quello che è successo, che moltiplicano l’eco dell’evento senza bisogno di pianificazione mediatica. Il valore non sta nella visibilità in sé, ma nella qualità dell’interazione: autentica, leggera, disarmante.
Per questo è uno strumento potente anche per chi non ha grandi budget. Perché non si misura con il volume, ma con l’inventiva. Perché non punta sulla ripetizione, ma sull’unicità. E soprattutto perché mette al centro il contesto, il momento, le persone. Attenzione però a farla facile. I rischi sono almeno due. Il primo, clamoroso, è l’effetto boomerang: se non funziona può fare danni. McDonald’s un paio di anni prima della colazione in pigiama aveva chiesto di condividere immagini belle e felici dentro i ristoranti. Fu un flop totale, commenti ironici, sarcasmo, derisione: epic fail si dice in gergo, ed è l’incubo di chi si occupa di marketing. Il secondo rischio è quello del limite. Se si fa, bisogna farlo bene. Bisogna avere coraggio, lanciarsi.
Il guerrilla marketing è – alla fine – qualcosa di simile a una performance di arte contemporanea: vive nel tempo e nello spazio giusto. Chiede di osservare con attenzione la realtà per trovare una crepa in cui inserirsi. E se fatto bene, è quella crepa che resta impressa, che si ricorda, che fa parlare, che fa sorridere, magari che fa indignare. Non è facile, non è garantito, non è replicabile in serie. Ma quando succede – come quella volta che migliaia di sconosciuti in pigiama si ritrovarono a fare colazione insieme – è indimenticabile.