Social, quando le immagini (non) fanno la differenza

I social sono un flusso continuo di immagini, video, caroselli, formati verticali, meme e grafiche più o meno ispirate. Siamo circondati da contenuti visivi a ogni scroll. Ma quanti, davvero, ci colpiscono? In realtà vediamo tutto, ma ricordiamo pochissimo.

In questo blob infinito, le cose che rimangono sono davvero poche. Negli ultimi tempi, per fare un esempio, le rielaborazioni in stile Studio Ghibli di qualche personaggio pubblico o il video di una Gaza (fu)turistica coperta d’oro, firmato Trump. Questi contenuti – diventati virali per motivi spesso controversi – hanno una cosa in comune: sono stati generati con strumenti di intelligenza artificiale. E non sono eccezioni. Grazie alla diffusione di tool gratuiti o a basso costo, oggi chiunque può produrre contenuti visivi, spesso anche ben confezionati, ma non per questo efficaci.

L’AI genera, compone, simula, esegue comandi e prompt, ma propone spesso un’estetica uniforme che non emoziona, non sorprende, non lascia traccia. Se lo stile Ghibli ha invaso i feed di Instagram è per il valore delle illustrazioni giapponesi originali. Se il video di Trump è finito sulla bocca di tutti, non è per la sua qualità realizzativa, ma per lo sgomento che ha provocato a maggior ragione in questo momento storico.

A ben pensarci, la storia dei trend social è costellata di successi nati non dalla qualità delle immagini, ma dall’idea che veicolano, dalle corde che sanno toccare. Per definizione, i meme – a partire dal celebre “Be like Bill” – non sono visivamente curati, ma funzionano per la forza dell’ironia. Noi stessi probabilmente ci soffermiamo più volentieri su una vecchia foto di scuola o su un’immagine sgranata di un evento storico, piuttosto che sull’ennesimo prodotto perfettamente illuminato su un fondo bianco aggiunto in post-produzione.

L’AI va quindi riportata a ciò che è: uno strumento, che per definizione va usato da qualcuno, e che ha – come tutti gli strumenti – dei limiti. Il problema non è tecnologico. È narrativo. Perché se manca uno sguardo umano a guidare il processo, il risultato è piatto: magari perfetto, ma senza anima. Un contenuto che non parla davvero a nessuno, che riempie spazi ma non lascia tracce.

E quando la guida manca del tutto – o è affidata a chi non ha competenze visive – si rischiano veri scivoloni: mani sbagliate, dettagli assurdi, atmosfere slegate dal messaggio. Ma anche errori più sottili: immagini fredde dove servirebbe calore, volti troppo generici per comunicare empatia, palette eleganti ma incoerenti con l’identità del brand. Non basta che un contenuto “funzioni” dal punto di vista tecnico. Deve comunicare un’identità, creare relazione, trasmettere un’intenzione.

E tutto questo, ancora oggi, richiede una direzione creativa. Serve qualcuno che sappia scegliere, correggere, tagliare. Che abbia cultura visiva, occhio allenato, sensibilità comunicativa. Qualcuno che conosca non solo gli strumenti, ma anche il pubblico, i valori del brand, la storia narrativa dell’azienda. L’AI è una risorsa, non un pericolo. Ma come ogni strumento potente, ha bisogno di mani esperte. E quando si tratta di visione, identità e storytelling, quelle mani – almeno per ora – sono ancora umane.

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